giovedì 9 febbraio 2012

"Cosa ti cade dagli occhi" è arrivato anche in Portogallo!

COME ABBEVERARSI AL POZZO CHE SI HA DENTRO DI SE'


COME ABBEVERARSI AL POZZO CHE SI HA DENTRO DI SE’.

Sento spesso il merlo fuori dalla finestra. Pizzica la polpa colorata dei cachi. Dipinge la neve con ciò che gli sfugge dal becco, mentre sorvola le aiuole. L’asfalto sbriciolato fa capolino dal freddo, e guarda. Spettatore di petrolio, con gli occhi bui spalancati, sembra sorridere, ma tace.
Io esco di casa, compiacendomi delle gambe e dei piedi. Uno dopo l’altro, i passi diventano un discorso tra me e il mondo. Che risponde sempre, mai lasciandomi solo. Ecco le persone vicino a me: altri discorsi, altre lingue, altre gambe, altri desideri. L’aria che ci scambiamo coi respiri, gli sguardi che osiamo posare sugli occhi dell’altro, le punte dei piedi sembrano pupazzi che giocano a nascondino. Mi domando come abbeverarsi al pozzo che ognuno ha dentro di sé. Forse dobbiamo darci una mano. Forse fa freddo là sotto. E il buio va accarezzato. Provo a calarmi laggiù come fa il merlo quando lascia il ramo, senza la paura del vuoto. E mi sembra davvero di volare. Più scendo negli abissi e più mi sembra di toccare il cielo. Poi l’acqua. E’ pioggia? Non importa, bevo.

venerdì 10 giugno 2011

L'ALBERO GENEALOGICO DELL'ACQUA





Milioni di anni fa l’oceano conobbe l’oceana, si sposarono e nacque un oceano più piccolo, detto mare. Il mare a sua volta si innamorò della mara, e da quella relazione nacquero tanti piccoli mari, detti laghi. I vulcanici, gli alpini, i prealpini e i costieri. I laghi erano giovani e gaudenti e presto si innamorarono di alcune laghe. Questa volta non si sposarono, perché andava ormai di moda la convivenza, ad ogni modo nacquero comunque dei piccoli laghi che comunemente chiamiamo stagni. Gli stagni erano molto furbi e non volevano innamorarsi di nessuno perché intendevano godersi la vita, ma a forza di andare a feste e celebrazioni, alcuni stagni misero incinte alcune stagnette. Nacquero dunque dei piccoli stagnettini. Gli stagni non vollero riconoscerne la paternità, e si dovette ricorrere alla prova del dna. In effetti corrispondeva. Non v’erano dubbi. Gli stagni erano i papà naturali e dovettero dunque passare gli alimenti alle stagne per allevare gli stagnettini che comunemente chiamiamo pozzanghere.
Le povere pozzanghere soffrirono per l’assenza dei loro padri, e crebbero con così tanti complessi che non avevano il coraggio di mettere l’acqua fuori di casa. Chiuse in se stesse le pozzanghere non facevano altro che passare le giornate su facebook, facendo shopping su ebay e ingurgitando pillole della felicità. Sembravano ormai delle eterne pozzanghere che non sarebbero mai cresciute, e nemmeno la psicoanalisi le avrebbe potute salvare. Raggiunti i sessant’anni le pozzanghere cominciarono ad avvertire il bisogno di maternità ma ormai era troppo tardi anche per l’inseminazione artificiale o fecondazione assistita (a seconda se la pozzanghera è esposta a nord o a sud). Alcune avrebbero atteso che la moderna medicina delle pozzanghere consentisse in futuro di fare figli anche a ottanta anni, le altre scoppiarono in un profluvio di pianti. Questa del pianto fu l’unica possibilità per le pozzanghere di tramandare la propria acqua ai posteri. Infine la forma ultima, più contemporanea e dunque più piccola dell’acqua, diciamo l’ultimo ramo del suo albero genealogico, è anche una forma di protesta e di indignazione che ben si confà alla nostra epoca: lo sputo.

sabato 11 dicembre 2010

intervista

Di Morgan Palmas

Un incontro con Gabriele Picco


Buongiorno, vorrei iniziare chiedendole a quale età si è avvicinato/a alla scrittura e se è stato o meno un caso fortuito.

Da bambino mi appassionarono molto due romanzi: L’isola del tesoro e Pinocchio. Poi per molto tempo lessi solo libri di storia. Così cominciai a scrivere di viaggi immaginari nell’antico Egitto. Mi piaceva molto inventare storie. Era come viverle. Mi ispiravo anche agli album di figurine di animali e dei personaggi famosi. Ho riempito anche quaderni e poi floppy e cd e chiavette con il mio diario dal 1992 a oggi (negli ultimi anni sempre meno). L’ho scritto sul frontespizio del primo quaderno: “Nessuna pretesa letteraria, queste sono solo parole che mi aiutano a vivere, scrivere”.

Se consideriamo come estremi l’istinto creativo e la razionalità consapevole, lei collocherebbe il suo modo di produrre scrittura a quale distanza dai due?

Molto di quello che faccio parte dall’istinto. Il mio secondo romanzo (Cosa ti cade dagli occhi) è nato da una scultura che a sua volta era nata da un disegno che avevo tracciato su un foglietto anni prima. Senza nessun tipo di progettualità. La fase razionale mi serve in un secondo momento per ordinare le idee, renderle più fruibili. Ed è la fase del lavoro duro…

Moravia, cascasse il mondo, era solito scrivere tutte le mattine, come descriverebbe invece il suo stile? Ha un metodo rigido da rispettare o attende nel caos della vita un’ispirazione? Ce ne parli.

Ci ho provato, a fare il Moravia, ma con scarsissimi risultati. Di solito accumulo idee su quaderni, idee che possono essere anche per dipinti, sculture, personaggi di romanzi ancora “vuoti”. Poi, a un certo punto, ma viene da solo, mi rendo conto che pian piano ho costruito, idea su idea, qualcosa che può assomigliare a un piccolo mondo plausibile. Allora cerco di abitarlo. Naturalmente capita che i tempi di attesa del “miracolo” siano lunghi, nel frattempo dipingo, vado al cinema, nuoto, vedo amici. Quando invece un romanzo è partito allora scrivo otto ore al giorno. Divento abbastanza inflessibile con me stesso.

Di che cosa non può fare a meno mentre si accinge alla scrittura? Ha qualche curiosità o aneddoto da raccontarci a riguardo?

Bevo parecchio. Tutti i liquidi possibili, dall’acqua ai succhi di frutta al tè, alla birra, al caffè. Diventano per me una specie di inchiostro che il cervello riversa virtualmente sulla pagina del pc.

Wilde si inchinò di fronte alla tomba di Keats a Roma, Marinetti desiderava “sputare” sull’altare dell’arte, qual è il suo rapporto con i grandi scrittori del passato? È cambiata nel tempo tale relazione?

Ne ho letti molti a vent’anni, adesso capita più di rado. In questi giorni però sto leggendo Dickens al mattino e Cechov la sera, dopo i pasti. Quando scrivo cerco di non pensare agli scrittori del passato. Cerco di non pensare nemmeno a quelli del presente.

L’avvento delle nuove tecnologie ha mutato i vecchi schemi di confronto fra centro e periferia, nonostante ciò esistono ancora luoghi italiani dove la letteratura e gli scrittori si concentrano? Un tempo c’erano Firenze o Venezia, Roma o Torino, qual è la sua idea in merito?

Nei blog, su facebook e per fortuna, in libreria.

Scrivere le ha migliorato o peggiorato il percorso di vita? In altre parole, crede che la letteratura le abbia fornito strumenti migliori per portare in atto i suoi desideri?

Scrivere mi ha aiutato in passato a superare momenti difficili. Metterti lì, in solitudine e scrivere può essere terapeutico. Per il resto la scrittura può anche condizionarti in negativo. È un’ossessione. Una lotta continua tra il vivere e il creare.

La ringrazio e buona scrittura.


Gabriele Picco, nato a Brescia nel 1974, si è laureato in lettere moderne all'Università Statale di Milano. Artista visivo e scrittore, ha partecipato con dipinti e sculture a mostre in spazi pubblici e privati in Italia e all'estero. Nel 2002 ha pubblicato il suo primo romanzo "Aureole in cerca di santi" (ed. Ponte Alle Grazie) ed è stato selezionato a "Ricercare", laboratorio di nuove scritture dove ha letto il racconto inedito "Compleanno senza un piede". Sulla rivista Fernandel ha pubblicato il racconto "Incontro al mondo". "Cosa ti cade dagli occhi", (Mondadori, 2010), è il suo secondo romanzo.

http://www.sulromanzo.it/2010/10/intervista-gabriele-picco.html

giovedì 7 ottobre 2010

hollywood


Mi ricordo mentre sudavi sull’asfalto di West Hollywood. Correvi con la crema intorno agli occhi mentre il tuo amore se ne stava nel letto a calcolare le distanze tra due sogni.

Alla fine il risultato era sempre sbagliato

lunedì 1 marzo 2010

Il bacio e il romanzo

Quello qui sopra è un mio dipinto che si intitola il Bacio.
Un soggetto abbastanza ricorrente nella storia dell'arte, basta ricordare quello di Hayez, che adesso è stato usato anche per una famosa pubblicità. Tra l'altro io quando rubano le opere d'arte e le ficcano nelle pubblicià mi diverto molto. Una volta ricordo c'era un'auto fiammante e a bordo due facce, una dipinta da van Gogh, l'altra da Modigliani... oppure gli spot della Rai che scimmiottavano i più grandi maestri della storia dell'arte. ma cosa stavo dicendo? ah, il mio bacio. Ecco, io l'ho rappresentato così, un bacio abbastanza alla francese, nel senso che non ci sono proprio dubbi che l'uso della lingua c'è, mica come in certi film, che stanno con le bocche appiccicate ma si capisce che le lingue se ne stanno a casa loro.
Allora, poi, ecco, queste lingue si attorcigliano ben bene, e sono così lunghe che tengono distanti i corpi dei due amanti. a guardare le lingue noto che si è formata una specie di scultura rosa, bella, astratta, che ricorda la forma di un DNA. c'è dentro quel bacio già l'essenza della creazione di un altro essere, il preludio a quello che sarà la fase successiva al bacio, il concepimento... il concepimento è già lì, nella lingua, e cioè nella parola.
Volevo dirlo perchè in fondo scrivere è creare, è baciare la realtà con la lingua e ricrearne un'altra. E forse questa scultura astratta è anche il romanzo stesso, che si estende a tutti i lettori in una specie di bacio ramificato...
basta così, vado a nuotare.

domenica 21 febbraio 2010

Intervista su Nuok, la guida della creatività italiana a New York

Gabriele Picco, artista visivo e scrittore. Sue opere sono presenti in collezioni pubbliche e private tra le quali MoMa, New York e Collezione Montblanc, Amburgo.

:: Benvenuto su Nuok, Gabriele! Nella tua bio leggiamo che sei “artista visivo e scrittore”, e noi stessi ti abbiamo presentato così, ma se diamo un’occhiata da vicino ai tuoi progetti scopriamo che dietro quella definizione c’è molto di più: hai pubblicato romanzi, realizzato video-installazioni, sculture, dipinti e disegni. C’è una relazione tra il fatto che sei un artista poliedrico e la tua esperienza in una città così varia e multietnica come New York?

Ciao, sono contento di conoscervi! Rispondendo alla tua domanda…Forse sì, nel senso che a un certo punto della mia vita ho sentito l’esigenza di andare in un posto come new York dove davvero puoi sperimentare senza sentirti un pazzo. L’esperienza del vivere in questa città è una linfa continua, piena di spunti visivi, sonori, tattili, olfattivi…

:: Il tuo nuovo romanzo Cosa ti cade dagli occhi (Mondadori), in uscita in questi giorni, è ambientato a New York. Nel presentarlo racconti che hai vissuto nella Grande Mela per due anni frequentando una scuola di cinema, ma che alla fine hai scritto una storia invece di un film. Ci puoi dire qualcosa di più sul processo creativo che ha caratterizzato questo progetto? In fondo qualcosa di visivo è rimasto: ci sono anche dei disegni fra le pagine del libro, e sono parte integrante della storia narrata.

A New York ho relizzato alcuni cortometraggi, l’ultimo aveva per protagonista un uomo proveniente dall’Oceano che va a spasso per la città con il suo migliore amico, un pesce…. Ma a parte il pesce che compare nel romanzo sotto forma di scultura e i pesci sulla copertina, non ci sono legami con il mio romanzo. In quel periodo vivevo in una delle lincoln towers in un appartamento al 23esimo piano. ( grazie a una borsa di studio alla columbia) e ricordo che da lì nacque l’idea di due dei personaggi del romanzo, soprattutto quello di Josh che colleziona polvere. Chi ha letto il libro mi ha detto che è molto visivo, e in effetti mi piace creare immagini sia con la matita, che con le parole sfruttandone le potenzialità evocative. Da tempo pensavo di riuscire a inserire dei disegni in un romanzo, ma ho sempre voluto evitare l’illustrazione, che non mi interessa molto. Grazie al personaggio di kazuko e al suo taccuino, ho potuto inserire disegni che appunto diventano parte integrante della storia senza essere illustrazione. Ed è attraverso i disegni che Ennio si innamora della ragazza.



:: New York è una città che ti ha dato molte soddisfazioni: hai vinto il prestigioso New York Prize della Columbia University, hai fatto diverse mostre e alcuni tuoi disegni sono stati esposti al MoMA. New York, e l’America in generale, è ancora una terra di opportunità?

Senza dubbio. In America guardano cosa sai fare. Ma a parte le opportunità lavorative io penso anche alle esperienze personali. Io a NY mi sento più vivo, più mescolato con il mondo e cambia anche la percezione che ho del mio corpo. E in ogni momento sai che può succederti qualsiasi cosa…

:: Cosa importeresti dall’America, e cosa invidiano a noi gli Americani.

Degli americani ti dico banalmente la pragmaticità, la meritocrazia. Ho avuto una fidanzata americana … lei ci invidiava la Sardegna e la Fiat 500!

:: Una cosa hai visto o fatto a New York e che non poteva succedere in nessun’altra città del mondo.

Ce ne sono centinaia di cose che posso succedere solo a NY! Potrei raccontarti di quando a Tyron Park d’inverno mi sono imbattutto in una cantante lirica che cantava in mezzo alla neve nascosta tra gli alberi, e alzando lo sguardo ho visto i cloisters, sembrava di essere in un sogno… oppure quando ho acquistato un tavolo alla salvation Army e non avendo soldi per il van io e un mio amico giapponese abbiamo camminato per quaranta minuti tra le strade di Astoria con questo tavolo, e tutta le gente che ogni tre passi ci fermava facendoci mille domande, addirittura consigliandoci per esempio di come avremmo potuto ridipingere il tavolo. Arriviamo finalmente a casa mia, ma il tavolo non passa nel portone. Mi scappa l’occhio all’insegna di una Citibanc, dove c’è un operiao che la sta sistemando arrampicato su una scala…. dopo nemmeno cinque minuti l’operaio, gentilissimo, ci aiuta a catapultare il tavolo sul terrazzo del mio appartamento, aiutati dalla sua scala.


Dal sito dedicato al nuovo romanzo di Gabriele Picco

:: Tornerai a New York?

Ci sono appena stato 3 mesi, io a new York mi sento sempre a casa e ormai ho anche tanti amici…. Tornerò al più presto!

:: Il tuo posto segreto a New York.

La piscina vuota di Astoria Park. Quando vado lì, specialmente se è inverno, rimango a fissarla a lungo. Dierto c’è l’east river, a destra il gigantesco ponte di ferro, e lì, al centro, solo il vuoto.

Leonardo Staglianò